CENERE
Comune di Selci, Rieti | 27 maggio 2017
Residenza d’arte urbana PUBBLICA
Fotografia: The Blind Eye Factory
Fotografia Allestimento: Kill The Pig
Sono i possibili legami umani ciò che Gonzalo Borondo pone in evidenza nelle sue costanti indagini artistiche, volubili impasti di carne e spirito che prendono forma al solo contatto con altra materia; il corpo è il mezzo, scomposto e perfetto, durissimo e fragile, attraverso il quale ogni essere si carica di altre esistenze. Analisi difficile quella dell’artista spagnolo che, cosciente della forza dei propri gesti pittorici, decide di affrontare evitando seducenti ricostruzioni di sagome e profili, concentrandosi sui percorsi e le vie che li ospitano. Un esercizio della mente che spinge Gonzalo su scelte più vaste dove le superflue descrizioni lasciano spazio a soluzioni ed ipotesi di più umana caratura. Sospeso tra silenzio e rumore in quell’armonico accordo di pezzi di vita, trasforma un luogo già pregno di sacralità in diverso e mirabile spazio di contemplazione nel quale comprendere i profondi rapporti che legano gli uomini al loro destino. La cappella funebre del piccolo cimitero di Selci diventa allora ambiente perfetto, tempio dell’anima che Borondo assolve con otto grandi pitture che vivono all’interno del cerchio, doppiate da innate trasparenze di vetro sul quale appaiono simboli di una memoria caducevole; poi dall’alto, l’oro, puro, dal centro si apre in un tumulto di cielo fatto di grassa pittura che sembra rovinare sulle teste dei presenti spingendoli verso un soave mantra di viva ceramica che mormora nell’ombra “la fine è l’inizio”. Una prova di coraggio dove lo studio di distanze e tensioni, che dai limiti cementizi della struttura circolare trascinano verso il centro della cappella, lasciano ad ognuno potere e libertà di conversare con la luce; calda ed impalpabile, racchiusa in un segno preciso e potente della croce. Un’ambiente che vive attraverso la pienezza del giorno ma che del tutto si svela nel vuoto notturno, dove i neri ed i bianchi, unici protagonisti, si toccano ed uniscono in toni caldi e pungenti. In simbiosi vivono le sue pitture dove la natura si scopre pretesto di incontri tra gli uomini, come fiumi che convergono in altri corsi di acqua. Vie legate alla terra, dove ciò che esiste fuori ritorna all’interno di corridoi dove i morti riposano. E ancora percorsi di natura non cruda ma forte di vita si manifesta in pennellate astratte che figurano bene; fino a toccare architetture dell’uomo; fatte di volte e palazzi scavati; ognuno una strada ma tutte in unica via. Qui l’arte diventa sfida solenne, tesa a infrangere barriere del tempo che ci separa dai morti; che sono Cenere.
“Cenere è la compresenza di due concetti agli antipodi, è come accendere una candela in un cimitero e scegliere di posarla in una nicchia vuota che attende il divenire. L’inizio la fine è l’inizio la fine è l’inizio la fine è…” (G.Borondo)
L’artista spagnolo Gonzalo Borondo racconta il suo lavoro Cenere, realizzato all’interno della cappella funebre del cimitero di Selci. Accompagnare ogni spettatore in un più intimo momento di condivisione trasformando l’intima cappella in una misteriosa meta di pellegrinaggio dell’arte. Ignari della destinazione e della natura del viaggio tutti gli spettatori sono stati invitati a salire su di un pullman allestito dall’artista che nella notte ha trasportato tutti verso la sconosciuta località. L’esperienza si è poi conclusa con l’arrivo al piccolo cimitero di Selci dove le persone sono state lasciate libere raggiungere la cappella attraversando l’antico cimitero, accompagnati dai silenzi rotti dal suono del volo di un rapace notturno. Un intervento complicato che alle 8 grandi pitture, nate per descrivere le diverse vie dell’uomo, si sommano altrettante suggestioni fornite dalle 8 lastre di vetro sulle quali padroneggia il simbolo primo della caducità della vita, la candela, e che proteggono e completano quegli spazi pittorici più preziosi. Sul muro circolare che delimita la cappella primeggia una disciplinata scala di gradienti, che dal bianco pavimento monolitico salgono fino a collegarsi ai grigi scuri di un pittorico cielo rinascimentale per poi chiudersi in una sofisticata area centrale realizzata in foglia di oro puro. Discipline diverse hanno trovato dialogo grazie poi alla luce che l’artista ha immaginato come necessaria combinazione tra i freddi della pittura ed i carnali caldi dei fasci luminosi che circondano il profilo della grande croce centrale e dalla porta disegnata appositamente in vetro e ferro battuto dalla quale entra la luce naturale. Il lavoro si è infine definito grazie ad un manufatto di argilla che in alto circonda la cappella ricordando a coloro che vivranno quel luogo come “La fine l’inizio è”. Durante l’inaugurazione è stato presentato l’object d’art che contiene la memoria testuale, visiva e materica del progetto; una scatola in ferro battuto, realizzata dalle stesse mani che hanno eretto la porta della cappella, dove custodire le suggestioni, le immagini e i materiali che articolano la complessità della cappella.